Il Lonfo - Ultima parte

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  1. PAN23
     
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    «Oh, quella maledetta bestiaccia, guarda!» fece Aédis puntando il braccio e l'indice verso la teca. «Guarda il Lonfo, come ci sta fissando! Non sarà mica un maniaco? Che San Fabrizio da Catania ce ne scampi! Mi mette i brividi, spostiamoci da qui» e detto questo prese tra le sue la mano del fratello, quasi strattonandolo lo invitò ad seguirla. Questi si alzò dalla sedia con l'uccello ancora a penzoloni – e dovette fare attenzione affinché non gli andasse ad urtare contro le liste dello schienale.
    Karl, in piedi con la sedia sempre in mezzo alle gambe, si mise a ridacchiare, tirò a sua volta a sé il braccio di Aédis, la afferrò dietro per la nuca e la baciò appassionatamente, furiosamente, disperatamente. Le infilò la lingua dentro la bocca in profondità, e subito dopo lei fece altrettanto, mischiando avidi le loro salive. Lei amava il profumo dell'acqua di colonia che lui era solito mettersi, dozzinale certo se paragonata al profumo sofisticato che era costretta a portare, ma almeno quella di lui era una scelta libera, la sua scelta. Egli scontrò la gamba contro la sedia, e questa cadde producendo un piccolo tonfo.
    «Ti amo, ti amo tanto, troppo, Aédis» farfugliò a più riprese il ragazzo in tono sommesso, ogni volta che riusciva a riprendere fiato e a staccarsi.
    «Anch'io, Karl, anch'io, non puoi capire quanto» fece lei di rimando.
    «Bwag, bwag, bwaaag...» gracchiò di nuovo il Lonfo quasi fosse un rapace, con un tono d'arrafferia malversa e sofolenta.
    «Ancora?! Ma cosa diavolo sarà mai?» esclamò Aédis indispettita e preoccupata, dopo essersi di colpo staccata dalle labbra del fratello. Entrambi si guardarono attorno un po' spaesati. Fu però preoccupazione di un attimo, ché subito i due tornarono assorti nella foga dell'impegno amatorio, e ripresero il lavoro delle reciproche bocche. Lo fecero spostandosi verso la parete frontale del locale, e Aédis si muoveva camminando all'indietro come un gambero, intanto che imperterriti continuavano a far aderire le bocche l'una all'altra come ventose. «Vieni, mettiamoci comodi» lo invitò lei staccatasi per un attimo di pausa, allorché lo sguardo le cadde con goloso compiacimento verso l'uccello, che era di nuovo divenuto duro e dritto come un fuso, e si sfregava contro le pieghe della sua gonna come all'affannosa ricerca di una tana o di una meta agognata.
    «Oooh, ma guarda che bravo il mio pupetto! Che meraviglia! È ancora sveglio e pronto all'azione, eh! Che bellooo!».
    Si portarono dietro al terrario del Lonfo, laddove a ridosso della parete che recava appese le spoglie di Pito Pito, sotto quelle sante reliquie stesse, c'era il divanetto di vimini con sopra tre cuscini. Aédis con un'abile piroetta fece voltare le spalle al fratello disponendolo davanti al divano, e con un colpetto delle mani ve lo precipitò a sedere. Come questi si trovò atterrato e sbracato sopra un cuscino, la sua erezione s'impennò svettando veementemente all'insù, andando a colpire prima l'addome e poi, risollevandosi, reclinando un poco in avanti all'indirizzo di Aédis, più volte – quasi fosse una grosso dito tentatore che con leggeri movimenti stesse eseguendo cenni d'invito – avanti e indietro. Lui continuò a rimanere come sorpreso, indeciso, inebetito. Fissava la sorella con stupore e desiderio, incapace di fare altro. Lei gli slacciò i pantaloni e rapidamente li calò giù assieme agli slip, mentre lui inarcava appena il bacino. E chiuse gli occhi, assorto come in una trance. Lei contemplò il suo faccino delicato, accarezzò le guance col dorso della mano.
    Il Lonfo s'era voltato già da un bel po' senza che i due se ne potessero accorgere, e aveva ripreso a fissarli attraverso la parete opposta della teca. Pian piano, facendo legica busia, facendo gisbuto, riuscì a strisciare verso quell'altra parete.
    «Vuoi che ti faccia vedere la mia topolina?» sussurrò Aédis con voce dolce e insinuante. Karl tacque, riaprì gli occhi e riprese a squadrarla. Paratasi innanzi a lui con le gambe leggermente divaricate, ella cominciò a sollevarsi la gonna, lentamente, mentre i loro rispettivi sguardi si incrociarono con complice intensità. Lei arricciò la gonna blu della sua divisa da cameriera fino all'inguine, in modo che comparisse alla vista il biancore triangolare delle mutandine. Strinse due lembi della gonna dietro, in mezzo alle cosce, ed incominciò ad accarezzarsi le parti intime con entrambe le mani, con una certa energia, facendo passare le dita fino all'interno delle cosce serrate, per poi ritornare lungo i bordi del monte di Venere. Strofinava le dite sopra la stoffa delle mutande, quindi le ficcava al di sotto. Mentre fissava Karl con occhi languidi, arcuò le labbra umide a formare un cuoricino – voleva provocarlo garbatamente con l'espressione del viso, e intanto armeggiava con una furia piuttosto selvaggia laggiù nelle basse umide profondità del suo ventre fuori controllo, sfacciata.
    «Vuoi annusarla, dai, vuoi?» miagolò Aédis avvicinando il sesso alla faccia del ragazzo, dopo aver strisciato di un paio di passi tenendo sempre la gonna sollevata. Egli in un baleno si ritrovò sotto al proprio naso la fica calda e odorosa, protetta ancora dal baluardo della stoffa di pizzo, e lei gliela spiaccicò contro montando i piedi sopra il divano. Non era certo la prima volta che vedeva – anzi, in quel momento solo intravedeva – la figa della sorella: da piccolo a volte facevano il bagno insieme – allora non ci faceva molto caso, non nutriva grande interesse, ma arrivò a scoprire molti particolari delle nudità di lei, al tempo ancora acerbe, piccoli i seni ancora e ancora coperto di rada peluria il grembo, e proprio per questo non in grado di suscitare profondi turbamenti nella mente di un bimbo. Scorse le brevi cime dei ciuffetti, lisci e bluastri, che spuntavano fuori dal pizzo, e quella fu come una divina apparizione, per lui; una grazia non richiesta che gli veniva incontro come un dono celeste. Accennò qualche movimento labiale, deglutì saliva, proiettò timidamente la lingua fuori per lambire l'umido frutto che semicelato gli si offriva davanti, ma ne era come impedito e tutto si ridusse a una serie di rapidi conati, come lo spasmo di un affamato dietro le sbarre che contempli un manicaretto succulento situato in una lontananza per lui remota.
    Afferrò tra i denti un lembo delle mutandine, ansimando, respirando forte, e sotto il calore di quel fiato la passera di Aédis entrò ancor più in fibrillazione, scossa all'interno da vibrazioni ritmiche d'intensità crescente, cominciò a secernere muco in abbondanza. Egli emetteva brevi mugolii mentre armeggiava coi denti per tentare di allontanare la stoffa che difendeva l'isola carnosa d'adipe e pelle crespa della sorella. Anche lei iniziò ad ansimare, e a roteare il bacino con precisi movimenti alternati in senso orario e antiorario. Non certo agevolato da quella specie di danza, lui riuscì infine a lasciare scoperta una buona porzione di una delle grandi labbra, strizzando la stoffa nel mezzo del solco muliebre, e lei agevolò tirando da sopra con le dita l'elastico delle mutande. Poi lasciò ricadere la gonna sulla testa del ragazzo, e Karl si ritrovò al buio con la testa incappucciata. Lei cominciò a ridere di gusto, perché lui stampava piccoli baci sul bordo della vulva che le procuravano solletico.
    Il ragazzo mugugnò e lanciò lamenti come fosse un moribondo felice, la sua lingua si fece d'un tratto più audace estendendosi all'infuori per l'intera propria lunghezza, e i piccoli timidi bacetti si andarono tramutando in audaci, lunghe strusciate tra l'interno coscia e il perineo di lei, i quali si trovarono lambiti, colpiti, avviluppati, massaggiati come da una cinghia umida e molle che andava intorno, avanti e indietro, avida e persistente.
    «Come sei bravo Karl, oh sì, continua così dai, da bravo...» bisbigliò gemente Aédis mentre divaricava ancor di più le gambe.
    Il Lonfo frattanto lanciò una nuova serie di tre prolungati versi, ma nessuno dei due ospiti umani vi fece caso, troppo assorbiti dalla propria piacevole attività. E mentre loro cionfavano, esso continuò a fissarli imperterrito, uscendo poco a poco dalla sua consueta indifferenza. I suoi occhi, di solito spenti, si accesero di una strana vivacità, si fecero curiosi, anzi indagatori – chi avrebbe mai potuto dire e spiegare il perché, e cosa si stava muovendo nella testa di quella bestia? Li sbidugliava, li arrupignava, e loro rimanevano ignari, immersi nella foga delle proprie solitudini condivise. Forse avrebbe voluto papparseli, forse avrebbe voluto condividere con loro quel momento di piacere in un menage a trois, forse voleva solo sfuggire alla sua vita ripetitiva.
    «Mettimelo dentro, fratellino, dai, voglio sentirlo tutto dentro» intimò eccitata Aédis, quando percepì che ormai la sua vagina era pronta, e lei ne avvertiva tutta l'urgenza, la voglia implacabile di qualcosa che ne riempisse la vuota cavità.
    «Dai Karl, adesso, su, adesso, lo voglio, dammelo tutto...» ella ribadì con la sua vocina dolce e perentoria, intanto che sollevava di nuovo la gonna facendo sgusciar fuori la testa di lui. Egli boccheggiava, il suo volto rosso era madido, le grigie pupille dilatate, gli occhi fuori dalle orbite.
    «No, noi non siamo animali! Ci dovremmo dunque accoppiare come le bestie che stanno qui dentro?» proruppe Karl in garruli singhiozzi.
    «Sì invece, noi siamo proprio animali, soltanto animali, come questi che ci circondano» sentenziò lei. «Eppoi, cosa abbiamo fatto fino adesso? Credi che un contatto pelle – lingua sia meno disdicevole?» ridacchiò rassicurante arruffandogli i capelli. Discese e tolse i piedi dal divano, poi si abbassò le mutande e le sfilò via, gettandole a casaccio. Si mise di nuovo a cavalcioni sopra Karl, stavolta poggiando le ginocchia sui cuscini del divano, mentre la gonna si dispose come a formare un paravento attorno alle gambe di lui. Portando le mani sotto un lembo della gonna, che scostò un poco, ella afferrò tra le dita della destra il pene, con decisione, e lo fece scivolare pian piano all'interno di sé, mentre fissava sorridente il fratello dritto negli occhi. Questi cercò di sbirciare, di addentrarsi con l'occhio, per quanto lo consentisse la penombra al di sotto della gonna, verso quella cosa misteriosa, quel balocco invitante e sublime che la sorella – al pari di tutte le donne, naturalmente – aveva in mezzo alle gambe, ed osservò, con uno sguardo che era un misto di paura, sbigottimento, desiderio e gratitudine, i movimenti della mano di lei che sicura guidava il suo arnese alla volta di quella “cosa” lì, eccitantissima – era l'adorazione mistica della Paura la sua, in qualche modo. Poi alzò gli occhi ed ammirò il viso di lei, che inondato da una luminosità da lui mai veduta prima cominciò a ondeggiare su e giù, un po' da un lato e un po' dall'altro, molto adagio all'inizio, poi con vigore e ritmo via via crescenti. Le rispettive porzioni d'adipe ed epidermide aderivano per attimi sempre più brevi, s'incontravano, e sbattendo facevano un ritmico ciunf ciunf ciunf, contemporaneamente alle gambe del divano che cigolavano facendo clin clin clin.
    «Bwag, bwag, bwaaag...». Loro stavano lugrando, e il Lonfo apriva e chiudeva la bocca facendo su e giù anche lui, in un certo senso; dava dei colpetti col muso contro il vetro, vi invischiava il linguone lasciando tracce di bava, voleva proprio botallarli, criventarli.
    Aédis inarcò il collo e socchiuse gli occhi, trascinata dalla piacevole marea di sensazioni. I suoi pensieri si lasciarono andare, partirono al galoppo facendo giungere alla sua mente rapide sequenze di immagini, mutevoli, inafferrabili, come accade in un sogno o prima di cadere nel sonno. Ed ella cadde come in un'allucinazione vivida mentre la carne del fratello stava pulsando dentro il suo ventre, le immagini vaghe finirono per focalizzarsi nel grottesco fantasma blu del Lonfo, che zuto zuto le apparve innanzi trasfigurato e indescrivibile, sempre però con la sua bocca enorme, i cornetti sopra quegli occhi vitrei intenti a scrutarla. L'apparizione la lasciò inquieta e alloppata. Cercò di scacciarla dalla testa ma, essendo troppo avvinta dalla propria ricerca del piacere, il fastidio procurato da quella finiva per passare decisamente in secondo piano rispetto a questa.
    «Bwag, bwag, bwaaag...». Anche stavolta Karl non durò che una manciata di minuti. Il Lonfo aveva di nuovo ricominciato a modulare il suo verso, e lo fece risuonare per altre tre volte all'intorno quando in sincronia con quello il glande di lui esplose violentemente nella caverna fradicia della sorella, come fa il frutto dell'Elaterio o cocomero asinino che esplode alla minima pressione o tocco schizzando lontano il suo succo; e l'utero di lei stava proteso come un vampiro famelico, già bell'e pronto a suggere tutto. E parimenti, all'unisono col verso della bestia, egli esternò il proprio piacere in maniera discreta lanciando un guaito sommesso che si protrasse per tutta l'emissione di svariati, potenti getti.
    «Ha-ah, si vede proprio che sei un giovanotto alle prime armi! Devi imparare a controllarti, non vorrai mica fare brutta figura con le ragazze, eh!» sussurrò lei mordicchiandogli l'orecchio.
    «Che buon sapore ha la tua pelle, Aédis...» rispose lui strascicando le parole come venissero dall'oltretomba, senza sapere cos'altro dire, e quindi rimase muto a contemplare in uno stato estatico il viso e la chioma di lei. Il membro si sfilò dalla vagina. Cominciarono a scambiarsi reciprocamente baci appassionati, sulle guance, sul collo, sulle labbra, mugolando appena. Intinsero le loro lingue l'uno nella bocca dell'altra, si trasmisero filamenti di saliva dolce e ricca di desiderio. Lei stava ancora sopra di lui, e passava la mano sinistra giù in basso, lungo il sesso del fratello – in fase di detumescenza ma ancora persistente in un'apprezzabile turgidità – eseguendo un massaggio a tratti delicato e a tratti più energico, pizzicandone e tormentandone a ripetizione la punta e il frenulo.
    «Oh, sei di nuovo in tiro... ma in fondo sei così giovane... e così maschio!» esclamò piano lei con soddisfatta meraviglia, constatando la rapida ripresa del fratello già sorprendentemente pronto all'uso con una nuova erezione.
    Aédis si sollevò un poco, e nel far questo strusciò le mammelle sulla faccia di Karl, con intenzione gliele schiacciò contro. Poi si scansò, andò ad accucciarsi in un angolo del divano.
    «Ora è meglio che vada, riporterò la lettera dove l'ho trovata, vedrai che il Signor Kia non si accorgerà di nulla» disse lui non appena ebbe scansato da sé la sorella, con tono poco convinto non tanto riguardo la lettera ma piuttosto riguardo la risoluzione d'andarsene via. Alzatosi di scatto, si tirò su i pantaloni, e cominciò rapidamente a infilarvi dentro i bordi della camicia facendo qualche passo per prendere le distanze. Ma il pene, capriccioso, continuava ad esibire tutto il suo sfacciato, indefesso turgore, rifiutandosi di lasciarsi imbrigliare dentro i pur ampi volumi tra le stoffe. Egli volse per un attimo lo sguardo in alto sulla parete, sopra il divano, verso le venerande spoglie di Pito Pito, di cui non aveva mai capito bene cosa rappresentassero, ma gli era palese che doveva trattarsi di qualcosa avvolta da un'aura di sacralità. Aédis, dal ciglio del divano su cui ancora stava a gattoni, lo guardò con occhi languidi.
    «Aspetta, no, non andare, non ancora...» sussurrò lei quasi supplice. Si alzò anche lei in piedi, si slacciò la gonna e la fece cadere ai propri piedi. Finalmente la fica di Aédis apparve, senza più baluardi se non il lembo della camicia da cui veniva appena ombreggiata, e Karl poté contemplare in tutto il suo splendore il crinito – e tuttavia tenuto in cura e ben rasato negli inguini – monte di Venere della sorella. Ella si slacciò i bottoni della camicetta la quale si aprì lasciando uno spiraglio. Lui non fiatò; cercò, o finse, di non guardare, di portare lo sguardo altrove. Sudava in volto, di nuovo, ed era pronto ad imboccare la via per andarsene, non fosse stato che per quella dannata erezione che lo impacciava rendendolo ridicolo. E mentre lui continuava ad armeggiare colla cintola dei propri pantaloni e a combattere con l'erezione simulando disinteresse, la sorella portò lo sguardo verso il Lonfo che beteva zugghiava e foncava nel suo trombazzo.
    «Ma tu guarda, si è perfino voltato e spostato per poterci guardare meglio... Incredibile! – deve essere proprio un maniaco!» constatò lei dopo essersi accorta della nuova posizione della bestia. Di conseguenza accennò ad una smorfia, e in segno di sberdazzi fece un gestaccio col medio al suo indirizzo, come avesse voluto affarfargli un gniffo. A seguito delle parole e dei gesti della sorella Karl gettò un'occhiata fuggevole alla teca, ma riprese subito la propria occupazione restando in un silenzio disinteressato. Anche lei si disinteressò quasi subito della faccenda, e tranquillizzatasi tornò a poggiar le ginocchia sul divano; vi montò su e si dispose prona, obliqua, in modo che Karl potesse aver bene in vista il panorama delle sue natiche sode e invitanti – sospettava che, in fondo, lui non aveva ancora voglia di andarsene, e sarebbe rimasto lì a sbirciare seppur di sottecchi.
    «Mettimelo nel culo, ti prego su, mettimelo nel culo» proruppe lei all'improvviso come strascicando le parole in sensuali gridolini d'invito.
    «Ma... ma co... cosa dici, Aédis?» biascicò Karl sconvolto e smarrito, non proprio sicuro di aver capito bene.
    «Mettimelo nel culo, su, suuu, lo voglio!» ribadì lei l'invocazione, con un tono supplichevole ma più squillante, e per invitarlo si strinse i pomi delle chiappe e li allargò mettendo in evidenza il solco del culo.
    «Io... io...» mormorò lui sempre più confuso, vedendosi costretto a gettare gli occhi sull'ano cresposo e rosaceo della sorella, che ella gli stava così impudicamente offrendo. Scrutò l'orifizio osceno in uno stato confusionale. Lei divaricò ancor più le cosce, inarcò la schiena sollevando il bacino. Solo allora Karl si accorse che le natiche e le cosce di Aédis erano percorse da lunghe, sottili striature bluastre o rossicce – erano i segni lasciati dalle frustate che il Signor Kia le aveva inferto qualche ora prima. Karl era certo perspicace a sufficienza per capire che la sorella era stata battuta, forse frustata; sì, ma da chi? Si trattava una violenza subita e non voluta, oppure lei era d'accordo, ne aveva tratto piacere? Aveva lei dunque simili propensioni alla sottomissione, lei che si riempiva la bocca sbandierando proclami d'indipendenza e autonomia? Lui preferì non soffermarsi più di tanto su simili riflessioni, su quei segni sulla pelle. In verità avrebbe voluto non vedere, scacciare subito tali pensieri, ma l'intuizione che l'autore dei segni sulla pelle della sorella potesse essere stato proprio il Signor Kia cominciò ad insinuarsi atrocemente nella mente.
    Karl rimase immobile qualche istante, i suoi occhi erano quasi piangenti. Lasciò che i pantaloni calassero di nuovo scivolando giù fino ai ginocchi. Si accostò ancora al divano tornando sui suoi passi, muovendo goffamente le gambe che erano ingombre dalla stretta dei pantaloni. Stranamente, egli non si mostrò poi così ritroso alla richiesta della sorella, non avanzò nessun'altra protesta, ma piombò in un cupo silenzio. Docile almeno in apparenza, quasi strisciando raggiunse le chiappe di Aédis.
    «Dai, Karl, che aspetti? Mettimelo nel culo, dai!».
    Era la prima volta, per lui, che vedeva il buco del culo di una donna – mai avrebbe immaginato che il primo che avrebbe visto nella sua vita sarebbe stato proprio quello di sua sorella. Afferrò quel voluttuoso ben di dio, i glutei vellutati di lei, e li divaricò ulteriormente. Non sapeva bene cosa fare, fu preso dall'ansia. Tentò più volte di avvicinare la punta del glande all'apertura del buchetto, in modo piuttosto precipitoso; fallì goffamente il bersaglio, finché non riuscì a poggiarvela sopra. Si fermò indeciso. Stringendo l'uccello alla base tra le mani esercitò una certa pressione. Aédis mugolò mentre Karl ansimava tentando invano di forzare l'apertura, ma la sua cappella era troppo grossa e non riusciva a scivolare dentro se non di un mezzo centimetro, veniva subito espulsa fuori malgrado la buona pressione esercitata da lui e gli sforzi di lei di dilatare i muscoli dello sfintere. Lei continuò a mugolare, e intanto cercava a tentoni di afferrare colla destra il membro dietro di lei, finché non lo ebbe tra le dita anche se con una presa malferma. Cercò di agevolare i movimenti del fratello spingendo il pene verso sé, e spingendo indietro il bacino quanto più poteva. Ma i suoi movimenti alla cieca si rivelarono solo poco meno goffi di quelli di lui, riuscirono a rendere appena più stabile il ponte che si formava tra l'erezione di Karl e il solco sudaticcio tra le chiappe di Aédis.
    «Prova a mettere un po' di saliva» mugolò lei laconica. Lui rimase incerto sul da farsi, finché decise di sputare sopra i palmi delle mani, per poi procedere ad una vigorosa frizione lungo l'asta del pene, che lei tratteneva ancora premendo leggermente il frenulo tra il pollice l'indice e il medio. Karl allontanò le dita di Aédis con gesto fermo, garbato ma inequivocabile, cosicché potesse aver campo libero per operare meglio sull'ano di lei. Spalmò la saliva che gli era rimasta sulle dita ben attorno all'orifizio, e lo fece con movimenti cauti, esplorativi, con quella cautela che si è soliti usare quando ci si azzarda in un territorio sconosciuto, come in effetti era per lui la minuscola circonferenza dell'inesplorato buco. Lo fece con paura, ancora preso da timore reverenziale. Aborriva quel che stava facendo, eppure non poteva fare a meno di farlo. Fu in quei momenti che l'odio per sua sorella sgorgò improvviso come un bubbone di peste da un lembo di pelle candida. L'indice scivolò attorno alla circonferenza e la doppiò più volte, girando in un senso e nell'altro. La mano gli tremava, la pressione che esercitava era piuttosto brusca, rude, ma Aédis sembrò gradire o, perlomeno, acconsentire in silenzio. La circonferenza dell'orifizio si stava dilatando sotto la frizione, così il dito poco a poco formando un moto a spirale affondava come in un imbuto vellutato e pulsante. Egli capì, anche dai segni bluastri sulle natiche impressi da mani ignote, che alla sorella piacevano le maniere brutali. Intrufolò repentinamente anche il medio, e fece affondare dentro le due dita per tutta la loro lunghezza. Sentì le interiora di Aédis palpitare, scosse da ondate di desiderio che le arricciavano, creando attorno alle dita l'effetto di un mantice ora stringendole e avviluppandole ora lasciandole libere nel vuoto.
    «Sì Karl, dai, così; affonda, sfondami tutta...» incitò lei entusiasta e languida. Lui fece un po' di avanti e indietro nel culo della sorella, velocizzando via via i movimenti, più audace ma sempre divorato interiormente dall'angoscia, da una rabbia crescente e dall'emozione suscitata dalla sorpresa per l'inattesa esperienza. Decise che forse era giunto il momento di provare ad infilare altro, e di colpo sfilò via le dita.
    «Mettimelo nel culo, dai, su, voglio sentire il tuo pisellino tutto quanto nel mio culetto, adesso» implorò ancora Aédis pressandolo con la sua richiesta. Karl avventò il membro – ormai teso fino allo spasimo per l'attesa – dopo averlo afferrato con le mani tremanti. Entrambi ansimavano, ma lui di più e per la paura. Non appena ella percepì con l'epidermide dell'ano che la presenza della cappella di Karl stava facendo ritorno, riprese anche lei ad agevolarne l'ingresso afferrandolo con la destra, che aveva fatto passare attraverso le gambe, da sotto la vulva. Stavolta non ci furono problemi, e l'ingresso fu trionfale; il membro scorse via rapido come un trenino che imbocchi una galleria, lo sfintere non oppose che una minima resistenza. Lei diede segno di apprezzare moltissimo, lanciando gemiti, gridolini. «Ancora, ancora, non ti fermare...», e lui velocizzò il ritmo, sbattendo il suo pube con crescente frequenza e violenza contro le chiappe di lei che ballavano e fremevano come un budino sopra un frullatore.

    Mentre lui frugava rapace dentro il suo intestino, Aédis chiuse gli occhi, e visioni sinistre ricominciarono a scorrere all'occhio della sua mente. Riapparve il Lonfo, che diventava sempre più grande, sempre più incombente, giganteggiando davanti a lei come l'Orco nel parco di Bomarzo, quasi fosse anch'esso divenuto di pietra ma di una pietra vivente – vivente d'una mortifera vita. «Bwag, bwag, bwaaag...» intonava la bestia quasi a sbernecchiare la ragazza; poi spalancò la bocca enorme, spropositata, e Aédis vi cadde dentro – sprofondò come dentro un pozzo, in un baratro nero senza fondo, e più sprofondava più la velocità di caduta si accresceva, fino a che ad un certo punto ebbe la sensazione che Grimilde la scolopendra, sgusciata e salita su dal fondo di quell'abisso e anch'essa divenuta abnorme, le stesse avvolgendo il corpo, lo stesse tastando con le zampe che formicolavano sul collo, sopra il seno, sulla pancia, sui glutei; si sentì come se le mandibole del centopiedi le stessero abbrancando la fica. E dalla sua fica percepì come uscire una cosa schifosa, che identificò con Ingrid la migale, la quale si faceva largo lungo il canale vaginale assieme ad una specie di pus nauseabondo, spingendo con le sue otto zampe pelose onde uscire allo scoperto per scrutare con i suoi otto piccoli occhi senza luce il nero abisso che tutto permeava. Poi ebbe l'impressione che una torma di formiche assassine a miriadi si fosse aggiunta per cominciare a correre lungo il suo intero corpo, dalle piante dei piedi fino ai capelli, penetrandola nelle narici, nei condotti delle orecchie, nella cavità della bocca, nella vagina, nel buco del sedere. Sentì volteggiare e sbattere sopra il capo ali membranose che le parvero quelle di Bonnie e Clyde, e ancora sentì dietro le spalle la presenza incombente e soffiante di Sarchiapone. E le parve di udire una risata beffarda e compiaciuta risuonare con effetto stereofonico per tutto quel buio – quella del suo Tiranno, il Signor Kia.
    Lei stava immersa in tale visione, quando Karl all'improvviso prese a percuoterle le natiche, colpendole a ripetizione e violentemente col palmo della destra, continuando al contempo a far dentro e fuori coll'uccello dentro il culo di lei, alternando un colpo su una chiappa ad un affondo nell'ano, per poi andare a colpire l'altra.
    «Puttana, puttana!» gridava lui, e quando ormai le chiappe di Aédis erano imporporate e paonazze la ragazza urlò forte, ma non tanto per il dolore procurato dalle percosse o dalla penetrazione anale, quanto piuttosto per lo spavento che quella visione-sogno le stava procurando. Pianse ed urlò a squarciagola, e intanto lui ripeteva «Puttana, puttana!» alzando il tono quanto più lei strillava istericamente, percuotendola in un crescendo di violenza.
    «Karl dove sei, dove sei? Non vedi anche tu questi mostri?» piagnucolò lei in lacrime. Ma Karl non l'ascoltava, non poteva ascoltarla, comprendere il significato delle parole che lei andava articolando, preso da una foga cieca, da un rancore sordo che si mescolava sia alle ingiurie sia a quella libidine sconosciuta fino a poco prima.
    «Ti odio, ti odio Aédis!... Sei solo una lurida puttana!» gridò Karl fino a coprire le urla di lei, continuando a percuoterle le chiappe. Ora entrambi si dimenavano furiosamente, ma Karl con una furia maggiore, sincronizzando i colpi dati con le pelvi a quelli delle mani, finché non eiaculò copiosi, lenti, interminabili getti di sborra che smorzarono gli ardori dell'intestino in fiamme di Aédis allagandolo di morbida cremosità. Lui grugnì, gemette di rabbia e piacere come un suino che si involta nel fango, quindi si placò, sfinito; lei roteò piano il bacino mantenendo i muscoli dello sfintere ben serrati attorno al cavicchio ancora in tiro, come a volerne ritardare il più possibile la fuoriuscita. Inevitabilmente però l'uccello di Karl iniziò a perdere il suo puberale turgore, seppure con relativa lentezza, e più esso andava restringendosi meno l'anello muscolare riusciva a far presa. Prima che fosse divenuto del tutto moscio egli lo sfilò via bruscamente dal buco del culo.
    «Ti odio... ti odio...» continuava a ripetere come un disco incantato, ora a tono basso e incolore. Non appena l'attrezzo di lui si sturò dal buco, il culo di Aédis si spalancò, e fece fuoriuscire una folata odorosa, tiepida come un colpo di fon da una lunga distanza, la quale investì in pieno i coglioni di Karl facendone drizzare i peli. All'aria seguì un rigurgito bianco sporco, l'ano si estroflesse lasciando fuoriuscire due filetti che colarono giù fino ad incunearsi nel solco della vulva.
    Il ragazzo attese qualche secondo prima di spostarsi. Tranquillo, si tirò su i pantaloni, stavolta in maniera definitiva – ormai il suo uccello aveva prosciugato tutte le energie, e giaceva immobile e rattrappito –, si sistemò la camicia e la riabbottonò. Lei si era accasciata sul divano restando col culo per aria. Ormai le visioni erano svanite, e dentro la sua testa era rimasto solo un grande vuoto, un buio d'immensa confusione e stordimento.
    «Karl... dove sei?...» proferì lei con un fil di voce, in uno stato confusionale. Non udì risposta. Aprì gli occhi. Le sue pupille ancora impigrite esplorarono i dintorni. Videro, velato come da nebbia, il terrario del Lonfo, e la sagoma di questo all'interno. Ma non videro lui. Sollevò la testa di scatto, poggiò la tempia sinistra sulla mano, poiché il capo avevo cominciato a girarle. Stette così qualche attimo prima di riuscire a riprendersi, poi voltò la testa piantando le mani su un cuscino del divano. Gli occhi incrociarono la sagoma silenziosa di Karl che la stava squadrando distrattamente, intenta a riordinarsi. Poggiando le natiche nude sul cuscino, si mise a sedere.
    «Karl...» piagnucolò lei tentando di riallacciare una comunicazione. Lui le voltò le spalle, piantò qualche passo calmo e deciso sul pavimento aggirando la teca del Lonfo, si chinò e raccolse da terra la lettera e la busta. Ripiegò la lettera e accuratamente la rinfilò dentro la busta.
    «Continueremo ad odiarci, sorella. Continueremo a stare qui, al servizio del Signor Kia, prigionieri nella nostra solitudine, come queste bestie qui» sentenziò lui rompendo il silenzio, continuando a darle le spalle.
    «Odiarci? Ma che dici, Karl? Noi ci amiamo, noi dobbiamo amarci, devi essere tu il mio principe azzurro...» declamò lei con voce implorante, e si alzò di scatto dal divano.
    Non fece in tempo a far uscire le parole di bocca, che la schiena di Karl si andava rapidamente allontanando, diretta verso le scale dell'uscita, mentre lei accennò un tentativo di andargli dietro protendendo in avanti le braccia. Si trascinò di qualche passo, poi si bloccò a lato della teca. Lo vide scomparire mentre imboccava la salita all'interno del cunicolo. In quell'istante, il Lonfo lanciò un unico, prolungato verso. In fondo era la sola creatura color azzurro rimasta disponibile là sotto, ma in compenso c'erano pure le molte luci azzurre sopra le teche: se voleva qualcosa d'azzurro, la ragazza avrebbe dovuto accontentarsene almeno per la conclusione della giornata. Per un interminabile istante Aédis restò come impassibile a fissare la soglia onde il fratello aveva fatto la sua dipartita, quasi contemplasse una presenza che non ne fosse il puro fantasma. Poi girò di scatto la testa verso il terrario del Lonfo; gli fece una linguaccia, e con la mano l'accazzò.

    Tornò presso il divano e vi si accasciò sopra, sfatta in volto e preoccupata, tenendo le cosce spalancate. Prese ad accarezzarsi il sesso ancora umido e imbrattato dal seme del fratello, ancora pregno del suo odore. Con la mano ne raccolse una parte, se l'avvicinò alle narici e ne aspirò quel fluido, quell'odore. Cominciò a tormentarsi selvaggiamente il clitoride. Dall'alto le sante spoglie di Pito Pito, il pitone di Santa Ilona la Stallona, vegliavano sulla scena, testimoni mute in un morto silenzio.

    FINE
     
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