Il Lonfo - Parte prima

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  1. PAN23
     
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    Allorché essa vide che l'oggetto della sua volontà era di un tipo diverso – aveva il tipo di un drago, la faccia di un leone dagli occhi di fuoco fulminanti e fiammeggianti –, lo allontanò da sé, da quei luoghi, affinché non fosse visto da alcuno degli immortali, avendolo lei creato nell'ignoranza... Egli si affermò. Si creò altri eoni in una fiamma di fuoco splendente – nella quale tuttora si trova – , inebetito nella sua follia, e produsse delle potenze.

    (Apocrifo di Giovanni)

    Il Lonfo non vaterca né gluisce
    e molto raramente barigatta,
    ma quando soffia il bego a bisce bisce
    sdilenca un poco, e gnagio s'archipatta.
    E' frusco il Lonfo! E' pieno di lupigna
    arrafferia malversa e sofolenta!
    Se cionfi ti sbiduglia e t'arrupigna
    se lugri ti botalla e ti criventa.
    Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
    che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
    fa lègica busìa, fa gisbuto;
    e quasi quasi in segno di sberdazzi
    gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
    t'alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi.

    (Fosco Maraini, Gnosi delle fànfole)


    Era lì. Stava lì. Lì sotto, nei sotterranei discreti della sontuosa dimora. Immobile. Accucciato dentro la sua teca di vetro, prigioniero. Prigioniero forse inconsapevole, di sicuro indifferente. Prigioniero come tutti i viventi son prigionieri di una loro propria prigione, concreta o astratta che sia. Indifferente. Come buona parte dei viventi, probabilmente inconsapevole del proprio stato di prigionia. Immobile. Indifferente a tutto, tranne al cibo. Immobile come uno zaffiro dentro un castone. Prigioniero della vanità di un tiranno viziato e vizioso, che si era autoeletto a proprietario della sua sorte e della sua vita.
    La fissava ostinato con i suoi occhi vitrei, così inquietanti sormontati com'erano da due escrescenze carnee simili a piccoli cornetti. Freddo, indifferente, alieno. Fissava colei che, esasperata e disgustata, si prendeva cura di lui a giorni alterni, seguendo le rigorose disposizioni del tiranno d'entrambi. Continuava a fissarla, fastidioso, per tutto il tempo che ella s'intratteneva lì.
    Si trattava di un grosso e grasso esemplare di Ceratophrys aurita, una gigantesca rana – o rospo, poiché riuscirebbe difficile stare qui a sottilizzare sulle differenze di genere – di provenienza brasiliana, di una rara varietà azzurra – una carenza genetica di pigmento cutaneo che aveva mutato la pelle della bestia dal tipico color verde a uno azzurro vivacissimo, screziata di ampie macchie irregolari, nerastre e bianche.
    Una vera chicca nella collezione di animali esotici del Tiranno, che per qualche strano motivo sembrava nutrire particolare predilezione per il placido batrace, immondo ai di lei occhi – come peraltro anche le altre bestie lì detenute. Egli aveva dedicato un posto d'onore a quella creatura disponendo il terrario che la ospitava nella posizione dominante del sotterraneo, così un visitatore se lo trovava in bell'evidenza davanti agli occhi alla fine della scalinata che conduceva lì sotto. Si presentava come un cubo perfetto di vetro, piuttosto modesto nelle dimensioni poiché appunto il batrace non si muoveva praticamente mai, quindi uno spazio maggiore sarebbe stato pressoché inutile. Però era collocato sopra un massiccio mobiletto in mogano pregiato e anticato, recante intarsiato in più punti lo stemma del casato del Tiranno, e ciò conferiva all'insieme un certo aspetto di particolare raffinatezza. Al di sopra del cubo pendeva dall'alto un trapezio sospeso per mezzo di sottili cavi al soffitto, sul cui perimetro correva una serie di faretti a lampade UVB, le quali quand'erano accese emanavano una luce bluastra come la pelle del Ceratophrys. Il terrario era distanziato dalla parete, e a ridosso di questa v'era collocato un piccolo divano, e sopra, ben in evidenza, schiacciata tra un vetro e un drappo rosso di seta marezzata, racchiusa entro una cornice ovale dorata, vi stava appesa una preziosissima reliquia: si trattava della pelle di Pito Pito, il pitone di Santa Ilona la Stallona, della mona e delle poppe compatrona (dopo San Rocco, naturalmente!). Tale pelle era quella dell'ultima muta, che il venerabile e venerando ofide, involontariamente stritolato dalle cosce della sua padrona mentre davano spettacolo, fece qualche tempo prima di spirare. Quell'ultima exuvia (la pelle di una muta) fu prelevata prima che lui se la pappasse.
    «Vedi, mia piccola sciacquina, noi dobbiamo sempre osservare ed apprendere dalla Natura, nostra madre e maestra. Questo animale sublime, il Lonfo, molto di lei c'insegna. Ne è quasi la summa, la quintessenza. Non fa nulla, non serve a nulla. È solo un grande apparato digerente, un laboratorio chimico che ingurgita cibo, prende materia organica dentro di sé e la rigurgita rielaborata, restituendola decomposta alla Terra. Ingoia i piccoli esseri che si accostano troppo alla sua bocca, li divora come Crono fece coi suoi figli, i quali ritornano ad essere liquame così come dal liquame hanno avuto inizio. È il servo inerte della Natura allo stesso modo in cui tu sei la mia servetta. Solo una macchina vivente. Eppure è così affascinante, così simpatico, così vivo e vitale nella sua parvenza di vita... Per questo l'ho sempre prediletta tra tutte le altre bestie. Bada ad averne sempre la massima cura! Impara da questo animale, mia piccola sciacquina, impara dal vecchio Lonfo ammargelluto!», così le aveva parlato una volta il Tiranno, durante una delle consuete, filosofiche paternali. Egli aveva battezzato la sua immonda bestia “Lonfo”, o “il Lonfo”. La teca di cui era ospite era attorniata da quelle di altri terrari, disposti lungo le pareti e negli angoli del sotterraneo: questi custodivano animali altrettanto bizzarri e non sempre rassicuranti, mentre in posizione centrale – ma collocata in maniera da lasciare visibile il terrario dell'ospite prediletto a chi si trovasse all'ingresso – v'era una vasca da 1000 litri in cui nuotava un gruppo di vivaci piranha. Alla destra del Lonfo c'era il terrario che ospitava Ingrid, una femmina di Theraphosa apophysis, una delle migali più grandi del mondo, più scura e pelosa della figa di una cinghialessa – tale bestia, benché schifosa e rivoltante agli occhi di lei, malgrado tutto non lo era mai così tanto quanto le appariva il Lonfo. Come repellente era l'ospite alloggiato nella teca posta a sinistra di quella del nostro: Grimilde, un esemplare di Scolopendra gigantea (che i brasiliani chiamano “Lacraia gigante”) lungo oltre 30 centimetri, veloce come un ghepardo miniaturizzato, liquida come un rivolo di mercurio che scorra su una lastra perpendicolare di marmo. Al contrario del mite rospone, si muoveva in continuazione all'interno del proprio spazio, agitandosi come un'indemoniata sulla sua infinita serie di zampe, oscillando nervosamente a destra e a manca la testa – munita al di sotto di un robusto paio d'inquietanti tenaglie – contro le superfici di vetro, alla perenne ricerca di cose viventi o defunte da stritolare, scuotendo sulle lastre le lunghe antenne come fruste impazzite per riuscire a percepire la presenza di qualsiasi oggetto semovente da appetire come potenziale preda. Poi c'era Sarchiapone, uno dei più ordinari e rassicuranti tra gli ospiti del sotterraneo, nel complesso: lontano cugino del venerabile Pito Pito, un Phyton regius, questi era un magnifico esemplare di Pitone reticolato (Python reticulatus) – un cucciolo lungo appena due metri e mezzo, che alloggiava nella teca più grande del locale collocata sulla destra dopo quella della migale Ingrid, in attesa di essere trasferito in un serraglio nel parco una volta divenuto adulto. Era in genere molto tranquillo, stava quasi sempre raggomitolato su se stesso sotto una grande radice di mangrovia. Avrebbe dovuto essere lui, per maestosità, il pezzo forte della collezione del riccastro, che però curiosamente gli preferiva il più ordinario Lonfo. In qualche modo lei capiva questa scelta, anche se per una motivazione diametralmente opposta, proprio perché il Lonfo le procurava un senso di enorme inquietudine. Altri terrari si susseguivano in fila lungo le pareti, tutti sormontati da piccoli faretti UVB dalla luce azzurrognola, anch'essi abitati da animali esotici e particolari, come le coloratissime, velenose Dendrobates, piccole ranocchie della foresta amazzonica (denominate anche poison dart frog, poiché gli indigeni sono soliti ungere le punte delle frecce col veleno essudato dalla pelle di queste rane esposte al calore del fuoco), in vasto assortimento di specie e varietà sistemate in piccole teche di vetro. Come vario era l'assortimento di specie dell'ordine dei Fasmidi, giganteschi insetti stecco e insetti foglia, alloggiati in gabbie di grandezza variabile con pareti a rete simili a zanzariere; bestie discrete, poco appariscenti ad una prima occhiata, che si mimetizzavano alla perfezione in un ambiente di piante, rami e foglie secche, però molto curiosi se osservati da vicino con attenzione; lei doveva di frequente rifornirli di rami di rovo e rose colti nel parco, di cui essi si nutrivano. In un'ampia gabbia a voliera erano ospitati Bonnie e Clyde, una coppia di Pteropus giganteus, pipistrelli giganti comunemente denominati Volpi volanti – nonostante l'aspetto impressionante e il ribrezzo che destavano in lei, anche loro in verità erano due tipi tranquilli; se ne stavano tutto il giorno appesi a testa in giù, ed erano pacifici mangiatori di frutta. Per la ragazza questo era un sollievo, perché quando somministrava loro il cibo non doveva maneggiare bestioline vive o altre cose repellenti. Però producevano guano in quantità industriale, e lei doveva diligentemente e regolarmente ripulire il fondo della voliera dalla loro merda, compito non proprio entusiasmante. V'era persino una colonia di formiche – forse la cosa più sorprendente che si poteva rinvenire là sotto – alloggiata in un formicaio artificiale: si trattava delle rosse, terribili Myrmecia gulosa dell'Australia, il cui genere annovera le formiche più grandi del mondo. Grosse quasi quanto calabroni, con lunghe mandibole affilate come sciabole, dotate di pungiglione e di un veleno potente, abili nel salto come locuste, ultra aggressive verso qualunque essere semovente si azzardi ad avventurarsi nel loro territorio – annualmente alcuni esseri umani, colpiti dai loro dolorosi morsi e punture, vi lasciano le penne. Il formicaio era stato congegnato in maniera molto particolare, costituito da un blocco di gesso a forma di parallelepipedo spesso tre o quattro centimetri; lungo una delle facce maggiori della superficie, quando esso era fresco di stampo, si era provveduto a scavare – probabilmente si era divertito a farlo il Tiranno stesso – tutta una serie di gallerie, passaggi, cellette e cavernette di dimensioni adeguate al tipo di formiche che avrebbero dovuto ospitare, ad imitazione di un formicaio naturale ma in modo che risultasse tutto ben visibile all'occhio di un osservatore. Il blocco di gesso era stato poi incorniciato con un'elegante cornice rococò in legno dorato, e la parete con gli scavi ricoperta da una lastra di vetro spesso. L'intero complesso era stato appeso, a mo' di un grande quadro, sulla parete destra del locale; l'effetto alla vista non era dissimile da quello di un acquario, e il biancore del gesso facendo da contrasto agevolava la visione delle formiche mentre si muovevano all'interno del loro nido. Sulla cornice vi era un foro da cui partiva un tubo di gomma trasparente, e questo collegava il blocco di gesso con un teca relativamente grande di plexiglas collocata su un tavolino di legno: il contenitore fungeva da ”arena”, ovvero era il luogo presso cui cui le formiche discendevano quando volevano scorrazzare, mangiare o procurarsi cibo da portare nel formicaio. E il Tiranno esigeva che alle sue tenere formichine venisse dato sempre e solo filetto sceltissimo di manzo (così come ai piranha), compito che era deputato quasi sempre a lei.
    «L'esempio più sorprendente del genere ci è dato dalla formica mastino (bulldog ant) che si trova in Australia; se la si taglia in due, si impegna subito in una lotta fra la testa e la coda; la prima afferra con le sue mandibole la seconda, e questa si difende bravamente col suo pungiglione: la lotta di solito dura una mezz'ora, fino a che i due litiganti non muoiono o non vengono separati da altre formiche. Il fatto si rinnova ogni volta...», così ella aveva sentito discorrere il Tiranno quando, trovandosi là sotto con un gruppo di conoscenti cui mostrava con fierezza il formicaio, citò leggendo da un tomo un brano tratto da una rivista scientifica dell''800, riportato a sua volta in tale tomo da un famoso filosofo di cui lei non afferrò il nome.1
    «Com'è affascinante la prolifica, inesauribile inutilità della Natura!», aveva udito esclamare il Tiranno in un'altra occasione in cui si trovarono assieme là sotto, a corollario di una delle fumose, pedanti, paternalistiche prediche che tanto spesso le rivolgeva.

    Lei non aveva mai ben capito per quale diavolo di motivo il Tiranno si tenesse quella specie di zoo sotterraneo degli orrori, dove scendeva raramente e per breve tempo. “Capricci insensati di un riccone annoiato”, aveva sempre supposto; ed un modo sadico per donarle maggior carico di lavoro, con un'incombenza che per lei risultava penosa e ripugnante – cosa da cui lui traeva gran godimento, sospettava lei quasi con certezza.
    Dopo aver terminato le faccende domestiche nella casa, si era precipitata giù nella stanza sotterranea. Ancora trafelata, si piazzò subito a gambe allineate proprio davanti al cubo di vetro che conteneva il Lonfo, in modo da riprendere un po' fiato. Lo fissò a lungo. Esso la fissava, o almeno così le pareva. Stava immobile, come sempre naturalmente, e la fissava. Un essere ridicolo, sgraziato, mostruoso nel suo aspetto tozzo e goffo, le zampe corte sproporzionate rispetto al corpo per piccolezza, così come la bocca enorme risultava sproporzionata in grandezza, coprendo oltre metà della circonferenza del corpo. Un vero monumento all'immobilità, tutto un inno all'immobilismo, il Ceratophrys, il Lonfo. Lei continuava a fissarlo, con uno sguardo come di sfida.
    «Maledetto rospaccio!» sussurrò lei. Con qualche passo si accostò di più alla teca, e ne aprì la parete in vetro, che era fatta a mo' di sportello. Poi voltò le spalle alla teca con tutta una compostezza e un galateo come se stesse officiando una solenne cerimonia, si sollevò sulle punte dei piedi e protese il suo deretano contro l'interno, chinò leggermente il busto in avanti portando le natiche tonde e sode quanto più poté vicino al muso del Lonfo. Passo qualche istante, quindi, a scherno dell'animale, diede inizio a una serie di sonore scoregge, poiché era ancora imbarazzata di stomaco dalla prime ore della mattina. La povera bestia non fece una piega, investita in pieno dal bego della ragazza. Dopo un breve silenzio, ella fece seguire un'ultima scoreggia lunga e rumorosa. Quando di nuovo sentì arrivare il soffio del bego, il Lonfo diede un lieve cenno di rattrappimento, piegando appena le zampe anteriori si abbassò, e a bisce bisce si restrinse in se stesso, sebbene quasi impercettibilmente, sdilencando un poco alla sua destra. Ma a parte questo, rimase piuttosto impassibile.
    Una volta essersi sfogata e alleggerita, ella tornò dritta e composta. Il tempo era tiranno, come il Signor Kia, ed era giunto il momento di foraggiare gli ospiti bestiali di quella sala senza più tergiversare. Lasciò semiaperta la parete di vetro (ché tanto il Lonfo non si sarebbe mosso) e si diresse sbuffando verso il piccolo parallelepipedo bianco del frigo congelatore che stava situato vicino all'imbocco delle scale del sotterraneo. Lo aprì. Per primo tirò fuori il contenitore di plastica con il pastone di filetto di manzo per i piranha e le formiche. Andò a gettarne qualche pezzo nell'“arena” delle formiche servendosi di una cucchiaia, poi si diresse verso l'acquario e lo distribuì accuratamente ai simpatici pesciolini, che lo fecero rapidamente sparire lasciando in sospensione nell'acqua abbondanti filamenti tinti di rosso, e quel rosso si andò a sommare al rosso di cui erano tinteggiati i loro ventri. Terminata la prima incombenza ritornò presso il frigo, e per mezzo di un lunga pinza afferrò uno dei batuffoli bianchi ricoperti di brina che stavano all'interno del congelatore, deponendolo dentro una ciotola metallica. Ripeté l'operazione finché la ciotola si ritrovò piena di quattro ratti congelati. Si diresse verso il piccolo lavabo che stava a fianco del frigo, vi depose la ciotola e aprì il rubinetto, in modo che il getto d'acqua bollente ricolmasse il contenitore – si trattava di un modo per far sì che i ratti si scongelassero più rapidamente. Lei attese una ventina di minuti seduta su una sedia, poi andò a tastare colle dita le masse mollicce immerse nell'acqua per accertarsi che i piccoli cadaveri avessero riacquistato sufficiente calore (doveva stare molto attenta affinché il cibo fosse sempre ben scongelato – guai se il padrone di quegli animali avesse subito la perdita o la malattia di qualcuno di essi per colpa di una congestione causata dalla sua negligenza!), quindi chiuse il rubinetto.
    La ragazza diede inizio al giro delle teche. Prima si fermò davanti al terrario di Ingrid, lo aprì e cominciò a sventolare un ratto davanti alla tana della piccola belva, tenendolo con la pinza. Ingrid non si fece pregare, e balzò sul cadavere di pelo bianco e bagnato con impressionante rapidità. Poi passò al terrario di Grimilde, dove la ragazza dovette darsi da fare con la pinza per simulare sotto al muso di lei la presenza di una preda ancora viva; ma non dovette attendere per molto, che Grimilde si avviticchiò al rattaccio che le era destinato. Questa lo addentò per la collottola esangue, e iniziò a masticarlo con lenta soddisfazione. Seguì il terrario di Sarchiapone, che acchiappò la massa di pelo arruffato e fradicio poco dopo che la ragazza ebbe cominciato a fargliela ballonzolare davanti. Inglobò lentamente il boccone, come fanno tutti i serpenti, ma la preda era talmente piccola per le sue fauci che sparì ugualmente all'interno dell'animale nel giro di un paio di minuti – questo per lui rappresentava solo un modesto spuntino, ma tre giorni prima il suo padrone stesso gli aveva portato una lepre viva e ruspante di cinque chili prelevata durante una battuta di caccia, pertanto lei aveva ricevuto disposizione di mantenerlo leggero.
    Per finire si diresse verso il terrario del Lonfo, con il suo sportello lasciato aperto, e di nuovo si soffermò davanti ad esso, restando pensosa per qualche tempo, finché con la pinza non sollevò l'ultimo dei cosi zuppi dalla ciotola, ammollito e gocciolante d'acqua.
    «Sei solo un parassita! Sì, un parassita della società, proprio come il tuo padrone, il Signor Kia... siete entrambi così inutili, così superflui, così insaziabili!» esclamò Aédis a mezze parole tra sé e sé, mentre accostava le pinze alla bocca dell'animale. Quando il boccone fu sotto il suo naso, placidamente la bestia spalancò la bocca smisurata, e senza scomporsi troppo – per carità! – lo inglobò all'interno. Rapida chiuse la bocca, deglutì, e come unici segni di vitalità infossò gli occhi sotto le palpebre, aprendo e chiudendo pian piano la bocca per tre volte.
    «Sei soddisfatto almeno, Lonfo? Non sei nemmeno capace di spostarti di un palmo per andare a prenderti da mangiare, te lo devono sbattere contro il muso!» ironizzò Aédis. La bestia continuava a fissarla con i suoi occhi freddi e inquietanti. Indifferenti. Aédis si voltò ancora una volta e ancora una volta lasciò andare un sonoro peto. Investito in pieno dalla nube aleggiante di gas, il Lonfo non batté ciglio nemmeno a questo possente soffio del bego, rimase immobile. Indifferente.
    «Toh, bèccati questa bella arietta, così ti aiuta a digerire!» ridacchiò sottovoce lei, maligna e ruffiana, prima di richiudere accuratamente la parete di vetro della teca.
    Per terminare il proprio lavoro mancavano ancora alcune teche, avrebbe dovuto distribuire cibo più minuto e prede vive (blatte, grilli e insetti vari), vegetali e frutta agli ospiti delle altre teche. Decise però che poteva prendersi del tempo e riposarsi un po'. Si sedette pensierosa sulla sedia, meditando su ben diversi e foschi propositi. Volse lo sguardo verso la vasca dei piranha e fissandoli si lasciò ipnotizzare dai loro movimenti a scatto. Al resto ci avrebbe pensato dopo.

    Un cigolio metallico seguito da un rumore di calpestio proveniente dalla rampa di scale allertò l'orecchio della ragazza, destandola dai suoi pensieri – era il segno che qualcuno stava scendendo lì nel sotterraneo. Infastidita, preoccupata, balzò su dalla sedia, si diresse con destrezza ma a passo furtivo e prudente verso il cancelletto (aperto, in quel momento) che serrava il passaggio tra le scale e il locale, e andò ad appiccicarsi con le spalle contro lo spazio murario tra questo e il frigo. Non erano attese visite, ed era strano che il Signor Kia a quell'ora si potesse aggirare nei paraggi. Un'ombra chiara si andava stampando sul pavimento grigio-bianchiccio della sala, che rifulgeva della luce asettica dei neon e di quella azzurrognola dei fari UVB, allungandosi man a mano che la presenza si avvicinava al vestibolo: dall'eco dei passi si capiva che ormai stava raggiungendo gli ultimi gradini. Aédis aveva il cuore in gola, sudava freddo.
    Una sagoma agile e sottile sbucò fuori dal vestibolo dalla volta a botte, di cui Aédis percepì il profilo con la coda dell'occhio. Questa si guardò attorno, e trasalì facendo un piccolo saltello laterale quando vide la ragazza piantata contro il muro, seminascosta dietro le sbarre di ferro che aveva di fianco.
    «Quante volte ti ho detto che devi gettare una voce quando decidi di venire qua sotto, idiota, e dire la parola d'ordine?» sussurrò velenosa Aédis a denti stretti, dopo aver afferrato leggermente per il collo quella figura giovanile ed efebica. «Mi hai fatto prendere un bello spavento!».
    «Andiamo, sorellina, chi diamine vuoi che venga qui sotto? I briganti che vogliono rapirti? Lo sai che a quest'ora il Signor Kia va in giro a fare la sua consueta passeggiata a cavallo! Scusa, comunque» disse il ragazzo, con enfasi e voce squillante.
    «Non fidarti di quell'essere e non sottovalutarlo mai. E parla più piano» continuò a sibilare Aédis abbassando il palmo disteso della mano. «Il Signor Kia ha cento orecchi e cento occhi» e puntò il dito sul soffitto verso una piccola telecamera, che discretamente scrutava dall'alto all'imbocco delle scale.
    «Come la fai tragica... il Signor Kia mi conosce, sa che sono tuo fratello, lavoricchio persino per lui talvolta, non penso ne abbia a male se ogni tanto vengo a trovare mia sorella!».
    «Non è questo il punto, scemo. Forse dimentichi cosa stiamo organizzando, a parte il fatto che – sappilo! – a lui non stai affatto simpatico».
    «Davvero? Perché, il Signor Kia ha forse simpatia per qualcuno che non sia se stesso? Anzi, a volte ho la sensazione che non abbia affatto simpatia neppure per se stesso – è questo il suo vero e unico problema... Quindi che cambia se non gli sto simpatico? Cosa ti fa pensare che nutra per me un'antipatia di tipo speciale? E a proposito di quello che stiamo complottando, sono venuto apposta per farti vedere una cosa».
    Il ragazzo aveva abbassato il tono della voce. Karl aveva sedici anni, era il fratellastro minore di Aédis. Alto e sottile, gambe lunghe agili e nervose, aveva anch'egli la pelle molto scura come la sorella, ma i capelli biondi a causa del padre diverso, e questi due elementi conferivano al suo aspetto un contrasto stridente e curioso, perché in genere la gente si aspetta nelle persone bionde una carnagione chiara; quindi egli dava sovente l'impressione di un ragazzino fanatico (cosa naturalmente non corrispondente al suo vero carattere) abituato a sottoporsi a dosi regolari e massive di lampade UVB: quasi fosse stato uno dei rettili del Signor Kia! Si diresse col suo passo d'adolescente acerbo verso il centro del locale, tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. Aédis lo seguiva alle spalle. Nonostante i suoi sedici anni egli appariva molto più maturo rispetto alla sua età; se non per aspetto fisico, almeno per capacità modi di fare e testa – le ristrettezze dell'esistenza, ma anche i traffici ruffianeschi dell'inquieta e intrigante sorella, lo avevano fatto crescere fin troppo in fretta.
    «Come stanno le bestiacce?» disse volgendo lo sguardo attorno verso i terrari, e puntò i passi verso la teca del Lonfo, quindi si piegò e scrutò l'animale. «Ciao ciao Lonfo» fece, mentre sventagliava un poco la mano davanti al vetro. Sorrise lievemente come Monna Lisa, affascinato da quella buffa immobile bestiola a cui non mancava mai di rivolgere un'affettuosa attenzione ogni qual volta scendeva lì sotto.
    «Ti sei informato su quanto ti avevo chiesto?».
    Aédis fissava il fratello. Si mangiava con gli occhi quel ragazzino tanto alto, così bello, così delicato, così ingenuo nella sua apparente maturità. Lo aveva tirato su lei in fondo, dopo la morte della madre. Ne aveva fatto il suo capolavoro, e ne andava tanto profondamente fiera quanto ne era terribilmente gelosa. Rammentò di quando, circa un anno prima, aveva corrotto la sua innocenza iniziandolo alle gioie del sesso. Era avvenuto tutto per caso, una tarda mattina di primavera, quando in un uno dei rari momenti di tregua dalle proprie faccende di domestica, si trovò con lui a riposarsi sotto l'ombra di un magnifico albero di salice che il Signor Kia aveva da poco fatto trapiantare nel suo parco. L'aria tiepida, dolce e invitante, aveva ridestato la libidine adolescenziale di Karl allo stesso modo in cui stava ridestando a nuova vita i teneri boccioli dell'albero, dei fili d'erba e delle margheritine sul prato attorno. S'erano adagiati con le schiene contro il tronco, l'una a fianco dell'altro. Lei si era subito accorta della subitanea erezione del fratello, che faceva capolino intravedendosi attraverso la stoffa beige degli ampi pantaloni. Sbirciava quel turgore con la coda dell'occhio, quel ben di dio ancora intonso, inesperto, ma che si protendeva alla Vita timido e sfacciato al contempo, traboccante tutta la propria vitalità adolescenziale. Loro due stavano parlando dei loro ricordi d'infanzia, e dei progetti per un futuro che immaginavano tanto radioso quanto il presente era grigio – ah, e per quanto ancora il loro futuro sarebbe stato grigio, non potevano certo indovinarlo! Forse lui era stato turbato dalla presenza e dalla vicinanza della procace sorella, forse stava solo fantasticando su altro, forse si trattava di una semplice subitanea esplosione ormonale. Fu un attimo, un'azione impulsiva senza riflessione (o magari covata da tempo nell'inconscio), per Aédis.

    Il ragazzo si ricompose, tornò ad intrecciare le mani dietro il fondoschiena. Lei continuò a fissarlo, e lui cominciò a fissarla a sua volta con i suoi occhi grigi, strani e profondi. «La stricnina è abbastanza facile da procurasi, ma mi è stata sconsigliata – se anche un topo ne riesce ad avvertire l'odore, figuriamoci un uomo. Per il cianuro le cose sono più complicate. C'è quell'orafo e argentiere qui nelle vicinanze, certo mastro Giona Piperno, di cui il Signor Kia è il miglior committente, che forse potrebbe passarmelo di sottobanco, ma si trova troppo vicino a questa dimora, ed il Signor Kia è appunto suo abituale cliente. Potrebbero facilmente risalire a lui e a noi... bisognerebbe rivolgersi a qualcuno che sia più fuori mano, almeno credo. Però tutto questo programma che hai fatto è inutile – cosa serve farlo fuori se non troviamo il modo di impossessarci dei suoi averi dopo?».

    «Hai l'angolo del labbro sporco» gli disse Aédis, in quella mattina sotto l'albero. «Aspetta, che ti do una pulitina». Karl aveva appena mangiato una nespola, e le labbra erano rimaste impiastricciate dal succo. Ma era solo una scusa, quella del ripulirlo, per poter ottenere maggior contatto con lui. Prima ella inumidì di saliva l'indice e il medio, poi portò le dita sulla guancia di lui, le adagiò delicatamente e strofinò la pelle con cura per lunghi sensualissimi attimi.
    «Ecco, ora lo sporco è andato via» sorrise compiaciuta lei. Subito dopo prese a giocare coi labbri, frizionandoli e strapazzandoli col polpastrello del pollice. Karl arrossì per l'imbarazzo, sia per quello procurato dal non poter più camuffare la propria erezione che stava esplodendo in piena esuberanza, sia per le ambigue moine con cui la sorella lo stava turbando.
    «Ah ah, birbantello, cos'è quest'odore? Sniff sniff» fece lei maliziosa, arricciando il naso e tirando su colle narici «Non puoi darmela a bere: sulle tue labbra e sulle mani sento puzza di tabacco, hai dunque cominciato a fumare, eh?» e a quelle parole che lo smascheravano egli arrossì ancora di più. «Io... io...» biascicò non sapendo cos'altro dire. «Oh, il mio bel bambino... sei cresciuto molto negli ultimi tempi, sai?» ella disse, poi gli stampò un bacetto schioccante sulla guancia. «Lasciati coccolare un po'...» fece lei con voce suadente, e intanto si appoggiava con la tempia sulla spalla di Karl. Egli era lusingato dalle effusioni di lei, ma l'imbarazzo gli rese difficile non solo proferire parola, ma anche riuscire a respirare.
    «Be', Aédis... io, non...» farfugliò lui mentre lei cominciò ad accarezzargli teneramente il viso, aggrappata alla spalla. Stettero uniti in quell'abbraccio ancora piuttosto innocente per lunghi minuti. Lui continuava a rimanere immobile, lei di controcanto si limitò ai leggeri movimenti intorno al viso e al collo del ragazzo. Fu così che, all'improvviso, ella si lasciò andare a quella libidine incontrollabile che mai avrebbe potuto spiegare; fulminea abbassò la testa precipitandola tra le gambe del fratello.
    «Co... cosa stai facendo, sorellina?» chiese lui con aria sbigottita, mentre fissava la chioma corvina di Aédis con gli occhi sgranati e si portava la mano sul punto della guancia che era ancora un po' umido della saliva di lei, come a tastare incredulo se quel che stava accadendo fosse un sogno o la realtà. Inutilmente chiese, e lei proseguì ad armeggiare sulla patta dei pantaloni emettendo solo un respiro denso, quasi affannoso. Con la voracità di una tigre che si avventa sulla preda, dimentica di tutto ciò che la circondava, persino del fratello e delle emozioni di questi, non appena sgusciò fuori inglobò l'estremità dell'erezione nella bocca calda, umida, impiastrata e traboccante d'una saliva vogliosa al sapor di nespola. La testa fece su e giù per alcuni istanti, brevi e tuttavia interminabili per lui; sull'asta turgida e un poco tremolante quella saliva luccicò colpita dalle strie giallastre di qualche tiepido raggio di sole che filtrava dalle fronde dell'albero, iniziò a colare in dense goccioline lungo la superficie cilindrica e irregolare, pompata e irrorata dalle vene pulsanti e sporgenti qua e là a formare delicate protuberanze violacee. Fu questione di breve tempo, e il ragazzo già fuori controllo gettò un lungo gemito soffocato, seguito a ruota da una serie di brevi singhiozzi. Subito dopo la bocca di Aédis si ritrovò allagata da una bianca valanga di sperma. Karl eiaculò così abbondantemente che il suo seme avrebbe potuto riempire agevolmente una tazza da tè. Lei fece scivolare fuori dalla bocca il frutto palpitante e ancor guizzante, rigurgitò involontariamente un paio di rivoletti biancastri e filamentosi che finirono ad imperlare un ciuffo di fili d'erba, ma per il resto deglutì tutto quanto le ingombrava l'interno della bocca con somma soddisfazione. Dopo risollevò la testa, in silenzio gettò uno sguardo ammiccante tanto intenso quanto rapido dritto all'indirizzo degli occhi sgranati del fratello, poi lo distolse subito rimettendosi a sedere. Si ricompose in tutta tranquillità; lo sguardo era sereno, i lineamenti del viso distesi e paciosi. Alzò il capo a fissare il cielo come se nulla fosse successo, e anche il fratello fece finta di niente, pur mantenendo un'aria piuttosto impaurita. Egli roteava gli occhi tutt'attorno in preda ad uno stato d'ansia. Si rimise il pene dentro la patta senza nemmeno ripulirlo, agitando nervosamente le mani. Rimasero in silenzio senza più parlarsi né guardarsi, stettero sotto l'albero per un altro quarto d'ora, poi si sollevarono e s'incamminarono via, sempre senza guardarsi, lei perfettamente tranquilla e innocente, lui cercando di mantenere un difficile contegno nello scombussolamento che agitava pensieri ed emozioni.

    1 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro II, par. 27
     
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  2. Me-io
     
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    Bellissimo il LONFO
     
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1 replies since 18/7/2011, 22:42   309 views
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